Abolire la caccia con il referendum, sì o no? Parla lo zoologo

Consegnate alla Cassazione 520.000 firme per il referendum sull’abolizione della caccia. Ma tra gli zoologi i sentimentalismi non sono di moda. “Utopia. Alcune specie proliferano a danno di altre che rischiano di estinguersi. L’uomo è oggi l’unico fattore limitante”

trentun anni dall’ultimo tentativo di raggiungere il quorum per abolire fucili e doppiette, gli animalisti ci riprovano. La palla è ora nelle mani della Corte di Cassazione che dovrà validare le 520.000 firme depositate dal Comitato “Sì Aboliamo La Caccia”. Poi assist alla Consulta, che ne dovrà dichiarare la legittimità costituzionale. I promotori sperano quindi in un mega election day primaverile che metta insieme altri cinque pronunciamenti popolari, tra i quali la legalizzazione della cannabis e la legge sull’eutanasia. Un’euforia referendaria che rischia però di infrangersi sullo scoglio del 50+1% dei votanti necessari, punto debole italiano già visto. E su accademici ed esperti che non si lasciano trascinare dall’onda sentimentale dei diritti animali, specie in tempo di cinghiali e orsi in città. 

“L’emotività condiziona  la razionalità”, sostiene senza mezzi termini Nicola Bressi, zoologo e docente al Master in Comunicazione della Scienza alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste. “In Italia abbiamo un serio problema di squilibrio della fauna selvatica, con specie che aumentano incontrollate a danno di altre che diminuiscono. E abbiamo tanto pervaso gli ecosistemi naturali, che oggi l’uomo rimane l’unico in grado di ribilanciarli”. Per lo zoologo triestino “abolire la caccia è un’utopia. Bisogna smettere di considerarla un hobby e concentrarla su specie fuori controllo per cause umane”. 

A risultare più problematici in Italia non sono tanto i grandi predatori, quanto gli ungulati. Cinghiali, cervi, daini e caprioli sono quantificati in due milioni e mezzo con una stima di esemplari in eccesso di circa 600.000 unità. Che secondo Coldiretti, si spingono a ridosso di città e attività agricole causando 10mila incidenti stradali e 20 milioni di danni all’anno alle coltivazioni. “Ma grufolare e brucare senza avere predatori crea danno anche alle aree naturali”, prosegue Bressi. “Nei nostri boschi e nelle nostre praterie sopravvivono ancora specie a rischio di estinzione come la testuggine di Hermann o piccoli rettili endemici le cui uova non hanno speranza di sopravvivenza in queste condizioni”. E poi nutrie, ghiandaie, colombacci, gabbiani reali e cornacchie grigie. Tutte specie invasive che proliferano a causa di ripopolamenti a scopo venatorio, reintroduzioni non sempre oculate e degrado dell’habitat. Ma che attualmente, trovano nell’uomo l’unico fattore limitante. “Non sono mai stato cacciatore ma ambientalista sì, da sempre. Oggi l’attività venatoria deve diventare un mezzo per gestire l’ambiente in modo sostenibile. Tenendo anche presente che consumare questo tipo di selvaggina sarebbe molto più salutare che nutrirsi di carne d’allevamento intensivo”. E quanto ai “diritti animali”, lo zoologo triestino ribadisce che uscire dall’ecologia scientifica “riserva un terreno insidioso. Perché la caccia no e la pesca sì? Il dentice alla Vigilia va bene ma niente agnello a Pasqua?”. D’altronde l’approccio scientifico non ammette defezioni né sentimentalismi. Eccezion fatta per le doppiette puntate sugli uccelli migratori. “Quella sì, la abolirei subito. Non possiamo sapere se l’uccello al quale stiamo sparando sia ben rappresentato o se sia l’ultimo della sua specie sulle Isole Faroe”.

Art.