La natura dei pareri dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), in materia venatoria.

La giurisprudenza non ha tuttora trovato un orientamento uniforme sulla vincolatività del parere espresso dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ex Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica, INFS); ad oggi infatti, nonostante gli accresciuti poteri riconosciuti all’ente sia dalle recenti modifiche alla L. 157/92, sia dagli organismi comunitari si registrano discorsi pronunciamenti; talora l’acquisizione del parere viene vista come mero onere procedimentale, talora invece come strumento in grado di condizionare la politica delle pubbliche amministrazioni, Province e Regioni in primis, deputate alla protezione ed alla gestione della fauna selvatica.


Pure gli ultimi arresti di ogni ordine e grado generati dall’ultima tornata di piani e calendari venatori non contribuiscono a diradare la nebbia giurisprudenziale che persiste sul tema.


Vediamo allora, per cercare di ricomporre un quadro di riferimento quanto meno sotto il profilo normativo, in quali casi la legge n. 157/1992 (legge quadro sull’attività venatoria) prevede che si debba richiedere un parere all’istituto.


Un primo caso è previsto dall’art. 4, secondo il quale è facoltà delle Regioni “su parere dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica”, autorizzare la cattura degli uccelli per fini di richiamo (art. 4), mentre una seconda ipotesi è dettata dall’art. 18, per cui, ai fini dell’approvazione del calendario venatorio è necessario aver previamente “sentito l’Istituto nazionale per la fauna selvatica”.


E ancora, il legislatore ha attribuito alle Regioni la facoltà di autorizzare il prelievo venatorio in deroga ai sensi dell’art. 9 della direttiva 2009/147/CE (art. 19-bis), solo una volta “sentito l’Istituto nazionale per la fauna selvatica (INFS),o gli istituti riconosciuti a livello regionale”.


Ciò premesso, partendo dunque dalla cattura degli uccelli da richiamo, in una prima fase i giudici amministrativi di primo grado hanno condiviso il principio per cui le singole Province, anche in assenza del prescritto parere dell’INFS, potessero comunque approvare un piano di cattura, sia pure solo a seguito di una particolareggiata e prudenziale istruttoria (cfr. ex multis TAR Milano, sent. n. 5784/2008); istruttoria che nel merito è però sempre stata ritenuta carente, con il conseguenziale annullamento, in pressoché tutte le ipotesi, dei i provvedimenti gravati per carenza di motivazione, nonché per l’inosservanza delle disposizioni regionali alle tassative prescrizioni della direttiva 2009/147/CE (già 79/40/CEE), interpretate in senso sempre più restrittivo dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria. Se infatti la Corte di Giustizia ha spesso (cfr. causa C-79/03), ritenute non selettive e non adeguate ai criteri comunitari modalità di cattura con reti o parany, di recente anche la Corte Costituzionale ha fatto proprio l’orientamento comunitario affermando, da ultimo, nella pronuncia 190 del 17 giugno 2011, con cui ha annullato le leggi regionali toscana e lombarda, affermando che le stesse non chiarivano perché una campagna di allevamento in cattività, tempestivamente promossa e realizzata, non fosse idonea a fornire il fabbisogno necessario di richiami vivi, in tal modo costituendo, secondo le prescrizioni rese in sede consultiva dall’ISPRA, «una valida alternativa alla cattura», non selettiva, dei medesimi.


Proprio in subiecta materia, dunque, la Corte Costituzionale, anche con la precedente pronuncia n. 266/2010 ha riconosciuto ai pareri dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, una diretta cogenza nei confronti delle Amministrazioni regionali richiedenti.


Il giudice delle leggi, in particolare, ha fatto propria l’interpretazione secondo la quale il parere dell’ISPRA risponde ad un’esigenza unitaria per ciò che concerne la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, correlata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato al riguardo, ponendo così un drastico limite a interventi regionali forieri di recare pregiudizio agli equilibri ambientali, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.


Passando poi al versante dei calendari venatori regionali, la giurisprudenza pareva ormai essersi attestata sull’opinione per cui il parere reso dall’ente avrebbe natura obbligatoria ma non vincolante. Da ciò la conseguenza che l’organo di amministrazione attiva, per potersi legittimamente discostare dal parere dell’ISPRA, dovesse motivare analiticamente in merito alle ragioni per cui riteneva di non doversi attenere alle indicazioni, spesso penetranti, ivi espresse (cfr. ex multis, TAR Umbria, sent. n. 459/1997).


In linea con la giurisprudenza maggioritaria di cui sopra, si inseriscono le recentissime pronunce cautelari rese nel rinnovato quadro normativo della L. 157/92, così come modificata dalla c.d. legge comunitaria 2009; la legge n. 96/2010, infatti, con l’articolo 42, ha apportato significative modifiche alla normativa nazionale, per nulla conforme alla direttiva uccelli, introducendo nuovi divieti di caccia nel periodo di migrazione e postnuziale.


La maggior parte di tali ordinanze hanno sospeso i calendari venatori regionali contenenti tempi di caccia estesi oltre le finestre comunitarie, rilevando come le osservazioni provenienti dall’organo scientifico e tecnico di consulenza di cui all’art. 7 della L. 157/1992 possano essere disattese dall’amministrazione a condizione che vengano esplicitate le valutazioni che hanno condotto a disattendere il parere (TAR Abruzzo, ord. n. 357/2011, TAR Calabria, ord. n. 774/2010), generalmente del tutto assenti


In senso opposto si sono però mossi altri collegi che, chiamati a decidere sulla legittimità di alcuni calendari venatori provinciali del tutto irrispettosi delle indicazioni fornite dall’ISPRA, non hanno concesso la misura cautelare sospensiva (cfr. TAR Brescia, ord n. 856/2011, TAR Firenze, ord. n. 981/2010), ritenendo sufficiente la presenza di motivazioni generiche, di mero stile, e financo la tutela degli interessi ricreativi sottesi all’esercizio venatorio.


Emerge, in questo quadro, per originalità giurisprudenziale, la recentissima ordinanza del TAR Lazio n. 4392 del 25.11.2011, che ha sospeso gli effetti del calendario venatorio regionale proprio in quanto la Regione, nell’approvarlo, non ha tenuto in particolare considerazione le osservazioni di ISPRA contenute nella “Guida per la stesura dei calendari venatori ai sensi della L. 157/92, così come modificata dalla Legge comunitaria 2009, art. 42”, indicazioni elaborate dall’istituto e indirizzate a tutte le Regioni proprio per la corretta applicazione, nell’elaborazione dei calendari venatori, degli standard minimi uniformi di tutela della fauna selvatica.


In sede di merito si dovrebbe però registrare un riallineamento delle pronunce, in quanto nel frattempo la stessa Commissione europea ha diramato un documento, in risposta a un quesito di un’associazione venatoria, in cui riconosce espressamente all’ISPRA quelle funzioni di indirizzo uniforme a livello nazionale, di alto profilo scientifico, che garantiscono la corretta e omogenea applicazione delle norme di derivazione comunitaria anche a livello nazionale.


Maggiormente intricata si configura la problematica dell’effettiva cogenza del parere formulato dall’ISPRA, nei confronti dell’ultima fattispecie qui trattata, quella del prelievo venatorio in deroga, anche quest’anno disposto con leggi regionali (è il caso della Lombardia) o con provvedimenti amministrativi (è il caso del Veneto) in violazione del dettato comunitario, come accertato dalle numerose condanne subite dall’Italia nell’ambito di reiterate procedure di infrazione, culminate da ultimo nelle sentenze della Corte di Giustizia del 15 luglio 2010 (C-573/08), dell’11/11/2010, nella causa C-164/09, e infine del 3 marzo 2011, nella causa C-508/09.Ora, la giurisprudenza nazionale in questo quadro si è occupata degli aspetti della mancata conformità dei provvedimenti autorizzatori della caccia in deroga ai sensi dell’art. 19-bis della L. 157/1992, rispetto all’art. 9 della dir. 2009/147/CE, criticità – per dirla con le parole del Consiglio di Stato – accentuata dal fatto che lo stesso dettato statale non detta nessuna modalità per garantire che non si superi il limite nazionale indicato, a livello scientifico, dall’INFS in un certo quantitativo, né tanto meno assicura un tempestivo controllo (cfr. Cons. Stato, sent. n. 1054/2009). In quell’occasione, i giudici di Palazzo Spada non hanno potuto far altro che constatare come la limitata cogenza del parere dell’INFS costituirebbe uno degli aspetti del difforme recepimento a livello nazionale della normativa comunitaria; a tal punto che la sentenza giungeva a disapplicare la normativa interna per dare riespansione al divieto generale di caccia della direttiva, escludendo la legittimità di ogni deroga.


Nel quadro normativo attuale sulla caccia in deroga, riformato rispetto ai tempi della vertenza di cui sopra, l’orientamento sulla natura del parere ISPRA è stato ripreso da talune recenti ordinanze di alcuni Tribunali amministrativi regionali che, nel respingere la sospensione dei provvedimenti regionali di deroga gravati, hanno definito come obbligatorio, ma non vincolante, il parere negativo proferito dall’ISPRA alle Regioni richiedenti; sicchè le Regioni si potrebbero discostare dal parere negativo di ISPRA in ordine alla sussistenza delle condizioni per l’autorizzazione delle deroghe mediante l’approvazione di un provvedimento adeguatamente motivato sotto il profilo scientifico giuridico; così l’ordinanza del TAR Veneto n. 876/2011 e quella del TAR Liguria n. 510/2011, passate indenni anche dall’appello cautelare. Successivamente alle pronunce cautelari è però giunta all’Italia, e alla Regioni responsabili delle plurime violazioni della direttiva uccelli, il 24 novembre 2011, una comunicazione della Commissione europea, relativa all’avvio di una procedura di infrazione nei confronti del Governo italiano per la comminatoria dell’irrogazione di una sanzione pecuniaria per il mancato rispetto delle sentenze di condanna; l’effetto è stato il ritiro, da parte della Regione Liguria e della Regione Lombardia, dei provvedimenti di deroga, timorose della rivalsa da parte dello Stato.


Pare allora, dalla disamina delle pronunce formatesi sui pareri di ISPRA resi sulla disciplina regionale e provinciale dell’attività venatoria, e sul carattere vincolante o meno degli stessi, che la questione possa trovare un’adeguata risposta se analizzata alla luce di una diversa prospettiva, quella della doverosa riforma della normativa nazionale, che è a tutt’oggi non conforme al dettato comunitario.


Solo una più analitica disciplina di dettaglio delle deroghe, che escluda la possibilità di una normazione con legge regionale (difficilmente caducabile in tempi sufficienti ad evitare abusi, visto anche il veloce passaggio dei migratori spesso oggetto della caccia in deroga) da un lato, e dall’altro che indichi le modalità dei censimenti e delle rilevazioni scientifiche atte a determinare il concetto di piccole quantità, da stabilirsi non su scala regionale, ma per lo meno nazionale, se non comunitaria o internazionale. Ciò in quanto le specie, in particolare migratrici, sono certo patrimonio indisponibile dello Stato, come recita l’art. 1 L. 157/92, ma tale loro qualifica non sta a significare tanto un concetto dominicale, ma l’attribuzione di un compito di tutela “nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale”, come recita la seconda parte dell’art. 1, più negletta. Ed è lo stesso concetto che echeggia nel preambolo dell’Accordo sulla conservazione degli uccelli acquatici migratori dell’Africa-Eurasia concluso all’Aia il 15 agosto 1996, ed entrato in vigore nel 1999: “gli uccelli acquatici migratori costituiscono una parte importante della diversità biologica mondiale e, conformemente allo spirito della Convenzione sulla diversità biologica, e dovrebbero essere conservati a beneficio delle generazioni presenti e future”.


Questo maggior dettaglio della disciplina del potere di deroga però non basta. Un certo margine di discrezionalità deve residuare, per garantire un’applicazione della disciplina efficace e modulata sul caso concreto; certo, fermo restando che una deroga, per essere tale, deve essere eccezionale nella sua applicazione e quindi, per usare le parole della Corte di Giustizia nelle pronunce di condanna dell’Italia, non dar vita ad un sistema permanente di caccia, sempre in vigore, stagione venatoria dopo stagione venatoria.


Ecco allora che una volta reso conforme il quadro nazionale a quello comunitario, il ruolo di ISPRA sarebbe meno caricato di quella funzione nomofilattica che di fatto oggi svolge in via vicaria rispetto a molte delle istituzioni italiane, regionali e statuali: basta ricordare che il Consiglio dei ministri, tenutosi all’indomani dell’emanazione dell’ultima edizione della legge regionale lombarda sulla caccia in deroga n. 13/2011, aveva deciso di non impugnarla avanti alla Corte Costituzionale, salvo poi subire gli strali della Commissione che alla fine hanno determinato Regione Lombardia ad abrogare le proprie disposizioni con L.r. 24/2011, un giorno prima della chiusura del prelievo in deroga.


Il parere di ISPRA diverrebbe allora lo strumento deputato all’espressione della valutazione scientifica, operata a livello nazionale, della coerenza della gestione faunistica decisa ai successivi livelli regionale e provinciale, nell’ambito di quella discrezionalità tecnica che ora, quale sua misura, ha il canone della sostenibilità. Del resto ricordiamo che l’art. 7 della L. 157/92, vent’anni fa, affidava all’Istituto il compito di censire il patrimonio ambientale costituito dalla fauna selvatica, di studiarne lo stato, l’evoluzione ed i rapporti con le altre componenti ambientali, di elaborare progetti di intervento ricostitutivo o migliorativo sia delle comunità animali sia degli ambienti al fine della riqualificazione faunistica del territorio nazionale, di effettuare e di coordinare l’attività di inanellamento a scopo scientifico sull’intero territorio italiano, di collaborare con gli organismi stranieri ed in particolare con quelli dei Paesi della Comunità economica europea aventi analoghi compiti e finalità, di collaborare con le università e gli altri organismi di ricerca nazionali, di controllare e valutare gli interventi faunistici operati dalle Regioni e dalle Province autonome, di esprimere i pareri tecnico-scientifici richiesti dallo Stato, dalle Regioni e dalle Province autonome; in altre parole, di monitorare e perseguire quegli standard minimi uniformi di tutela ambientale di cui all’art. 117, c. 2, lett. s), Cost., anche nella materia faunistica.


In tale quadro la natura meramente obbligatoria, ovvero anche vincolante dei pareri dell’ente, di fatto perderebbe di rilevanza, stante la sostanziale impossibilità, per le Regioni, di derogare siffatti standard.

* Avvocato in Bergamo