Dalle pappardelle allo spezzatino, quante storie racconta (in cucina) il cinghiale

di ELEONORA COZZELLA

In un libro 60 ricette che valorizzano questa carne considerata prodotto di territorio e frutto della cultura della cacciagione.

È il cinghiale va nel vino o è il vino che va nel cinghiale? In questo apparentemente senza senso gioco di parole sta il riassunto di generazioni di cuoche e cuochi maremmani, perché in questa parte di Toscana brulla e rustica ogni paese, ogni ristorante e ogni famiglia ha la sua ricetta “perfetta” per il ragù o l’arrosto o lo spezzatino in umido. E anche quando può sembrare simile si nascondono differenze di tempi di cottura, scelta di erbe aromatiche e appunto presenza del vino: la carne va marinata nel vino o il vino va aggiunto in cottura?
E poi mille altre varianti: quanto tempo lasciare la polpa nel vino con gli aromi (si passa da poche ora a una intera notte, ovviamente anche in base all’età dell’animale) e soprattutto, il liquido risultante, carico del sentore selvatico ceduto dalle fibre, va abbandonato o a sua volta riutilizzato in pentola? E, tra quelli che usano il vino solo in cottura, le dispute sono sulle quantità e le modalità, per stabilire se vada solo sfumato o debba costituire piuttosto la base per la carne.
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Ognuno ha il suo credo, confermato da solide abitudini e esperienze trasmesse dalle generazioni precedenti, quindi inutile discuterle. E comunque meglio caso mai conoscerle. Sono un modo anche per conoscere il rapporto con la cucina di un territorio speciale in cui il cinghiale – ora magari un po’ meno – è sempre stato protagonista in cucina perché, come dice Fausto Costagli di Slow Food Toscana, “il cinghiale sta ai maremmani come il baccalà sta ai portoghesi” e ci sono centinaia di modi per cucinarlo. Fin dalla notte dei tempi. Ben prima che Linneo nella seconda metà del 1700 lo classificò nominandolo Sus Scrofa. Tanto che l’animale, ora amato ora odiato, ha lasciato molte tracce nella mitologia di diversi popoli.
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Nella mitologia indiana si narra la leggenda di Vishnu che, quando un demone rapì la Terra trascinandola nelle acque cosmiche, si trasformò in un enorme cinghiale e si tuffò per sconfiggerlo e liberarla. Questo avrebbe dato origine al presente ciclo geologico.
Gli antichi persiani ammiravano i cinghiali in quanto simbolo di coraggio e sprezzo del pericolo: il termine Goraz (cinghiale) veniva aggiunto al nome di una persona che si fosse particolarmente distinta in battaglia. Nella mitologia egizia il Dio Seth si trasformò in cinghiale per scagliare un dardo di fuoco nell’occhio di  Horus e fu maledetto da Ra, e maledette furono le sue carni che gli egiziani non mangiano.
In Grecia era molto temuto e malvisto, considerato simbolo del buio e della morte e fu l’oggetto di una delle 12 fatiche di Ercole.
Figura positiva invece per i celti: la dea dell’ispirazione Ceridwin era rappresentata dal cinghiale, perché l’anziana divinità assumeva queste sembianze per avvicinare la gente e ispirarla. Anche i druidi vengono associati al simbolo del cinghiale, che troviamo anche nello stemma araldico di Merlino come in molti stemmi italiani e della Germania meridionale.
085900883-2551ef7f-cd95-4d78-a073-2e13f71c6b60 Dalle pappardelle allo spezzatino, quante storie racconta (in cucina) il cinghialeAnche se cacciato fin dal Mesolitico, è durante il periodo imperiale e poi medievale che si sviluppa una cultura della caccia organizzata al cinghiale, come dimostra l’episodio tramandato di Carlo Magno che nel 799 si assicurò fama imperitura di eroe per aver abbattuto un cinghiale, potendo contare solo su una lancia. Così il re entrò nel mito storico.
A tracciare la storia, la diffusione in Europa e soprattutto in Italia e in Maremma, con le ovvie trasformazioni anche della razza, dei cinghiali è il libro “Le ricette del cinghiale – dall’antico romano Apicio ai nostri tempi” (Tarka editore, 13,50 euro) in cui lo scrittore Marco Galleri, maremmano d’adozione, ne seleziona 60 tra le centinaia che racconta di aver provato. Il ricettario diventa anche un modo per raccontare una terra attraverso la sua gastronomia perché è ovvio che nelle regioni in certi prodotti sono più numerosi, entrano a far parte delle abitudini alimentari e quindi di vita.
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Già Aldo Santini nel libro Cucina Maremmana negli anni 90, sottolinea come questa carne fosse imprescindibile per la cucina di festa, ma anche per quella di tutti giorni, e come i cacciatori si fossero specializzati. E infatti Galleri rimarca l’importanza di una cultura della gastronomia da cacciagione, ben diffusa nelle regioni di tutt’Italia, che trova in Toscana e particolarmente in Maremma la sua massima espressione. Così la carne di cinghiale è prodotto di territorio e come tale cambia nel tempo: oggi i cinghiali possono anche essere allevati allo stato brado o semi-brado. Proprio in relazione al loro sviluppo (totalmente selvatico, o da allevamento allo stato brado e se mi brado) ma che in relazione alla loro età, si presta a diverse ricette. La sua carne, classificata come carne rossa, è molto proteica, poverissima di grassi, ricchissime di potassio, fosforo, sodio, ferro, calcio e vitamine.

Il libro sottolinea e valorizza queste peculiarità scegliendo non la classica divisione in antipasti primi e secondi, ma quella per tagli: filetto, coscio disossato, polpa, macinato per ragù (più una sezione per i salumi).
Eccone un esempio085900914-4c9df62e-23cf-4316-94a6-28d7fcf1f484 Dalle pappardelle allo spezzatino, quante storie racconta (in cucina) il cinghiale

La ricetta: pappardelle al cinghiale

Ingredienti per 6-8 persone
800 g di pappardelle all’uovo, 1 kg di polpa magra di cinghiale, 1 l di vino rosso, un etto di tartufo nero estivo, un etto di burro, olio di oliva, 200 g di parmigiano, un trito di carota-sedano-scalogno, rosmarino, salvia, alloro, prezzemolo, un rametto di timo, una scorza di limone, 4 bacche di ginepro, 4 chiodi di garofano, 5 grani di pepe.

Procedimento
Per la preparazione come prima cosa devi tagliare 1 kg di polpa di cinghiale a cubetti, e farla marinare con 8 dl di vino rosso, rosmarino, salvia, prezzemolo, alloro, scorza di limone, quattro bacche di ginepro, quattro chiodi di garofano e cinque grani di pepe per sei ore.
Passato questo tempo, scola la carne, condisci con un filo d’olio extravergine d’oliva e metà delle erbe e delle spezie della marinatura tritate (la loro deve restare intero) e farla rosolare con un trito di sedano carota scalogno prezzemolo e aglio.
Sfuma con 2 dl di vino e cuoci a fuoco basso per un’ora, bagnando con acqua calda di tanto in tanto.
Distribuisci sul fondo di una padellina antiaderente ben calda 25 g di parmigiano grattugiato. Lascia che si fonda uniformemente formando un disco irregolare. Poi giralo con una spatola sottile per cuocerlo pochi istanti sull’altro lato. Trasferisci subito la cialda sul piatto e dalle la forma che preferisci. Ripeti l’operazione per altre cialde.
Scalda otto cucchiai d’olio con uno spicchio d’aglio e un ciuffo di timo, una volta pronti togli dal fuoco e unisci i 100 g di tartufo nero a lamelle.
Cuoci al dente 800 g di pappardelle fresche all’uovo, falle saltare con il ragù e mantecare il tutto con 100 g di burro 80 g di parmigiano. Servi la pasta sulle cialde di parmigiano.

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