Profumo di Caccia
Il fascio di luce proiettato dai fari della vecchia jeep a mala pena riusciva a far distinguere la carrareccia che portava al chiaro, dove due capanni di canna e sala palustre, fungevano da appostamento per la anatre. In auto un odore, noto a tutti i cacciatori, un misto di naftalina degli abiti tolti dall’armadio, si confondeva con l’afrore dei cani, miscelato a quello delle anatre germinate, usate come richiami, un odore che eccita come una droga, un odore unico, carico di speranze sempre nuove, speranza di una giornata eccezionale in cui si immaginano stuoli di germani, alzavole, moriglioni che continuamente vengono a gioco, in un continuo susseguirsi di passaggi sulla tesa degli stampi, e l’odore eccitante degli spari, miscelato ai miasmi che si levano dalla palude quando affondiamo nel fango con gli stivaloni, per recuperare le ambite prede.
Un odore che si ricorda anche a distanza di anni, perché inconfondibile, desiderato, un odore che ci accompagna durante tutta la nostra esistenza, ricordandoci la veemenza della gioventù spensierata, la serenità che trasmetteva nella maturità e i dolci ricordi nella vecchiaia. L’odore è sempre quello, un misto di sudore, olio per armi, polvere da sparo e l’afrore dei cani bagnati, del fango sugli stivali miscelato con le erbe palustri rese putride dall’umidità. I vecchi cacciatori dicevano che i vestiti portati a caccia non andavano lavati, il sudore impastato con la polvere e il fango li rendeva impermeabili, e annusandoli portavano alla mente le tante avventure che questi abiti testimoniavano, non venivano lavati perché non perdessero quella patina di ricordi che racchiudevano nelle loro trame.
DI CACCIARI PIETRO, CACCIATORE AMBIENTALISTA